Vittima e Carnefice

Comincia così. Improvviso. Necessario. Irrazionale. Talvolta letale, il bisogno di controllo. Un bisogno nuovo sempre più frequente nella realtà odierna, dove il tempo scorre spietato vanificando la ricerca di un ordine razionale, certo, immobile, sicuro, rigoroso. 
E' nella negligenza di questa realtà sociale in cui tutto scivola e nulla è afferrabile, che donne e uomini (ebbene si, nemmeno loro ne sono immuni) in balia del caos delle loro esistenze, fanno un'amara scoperta: l'unico oggetto da costringere sotto il vigile occhio del controllo (per intenderci, quella situazione ansiogena un po' alla 1984 di Orwell) è, gira che ti rigira, il proprio corpo, vittima e carnefice al tempo stesso. 
Dunque è da qui che nascono come rampicanti incantati difficili da estirpare, i disturbi del comportamento alimentare.

Come scritto in un articolo pubblicato sul sito web bulimianoressia.it, “In Italia sono oltre 3 milioni di persone a soffrire di DCA (disturbi del comportamento alimentare) […]. Nell'85% dei casi si tratta di donne adulte, adolescenti e bambine. Negli ultimi anni il fenomeno riguarda anche gli uomini (circa il 20%)”.
Ed ecco che la triade cibo-corpo-peso diventa un anestetico per sedare il dolore, lo scoglio a cui aggrapparsi per sopravvivere alla tempesta della vita ma soprattutto lo schema perfetto per riordinare un'incasinata esistenza.


Non è difficile trovare guardandomi intorno qualcuno che viva un rapporto anormale con il cibo. C'è chi ingurgita qualsiasi cosa indistintamente, non facendo caso se si è appena trangugiato un hamburger appena sfornato dalla prima catena di fast-food o una delle cibarie più sopraffini; chi si dice perennemente a dieta; chi accusa un mal di pancia sospetto al momento di organizzare una “pizzata” in compagnia. Le mura di casa diventano la fortezza entro cui poter consumare un pasto lontano da sguardi indiscreti, dove poter contare ogni singola caloria che portiamo alla bocca, che mastichiamo con irritante lentezza e che alla fine inghiottiamo, consapevoli dell'assurdo peccato commesso nel nutrirci, stremati.
Perché da qualsiasi punto di vista si decida guardare, il cibo è e sarà sempre un mezzo di interazione sociale, un rituale pagano utile ad instaurare legami con un altro io collettivo e non, come quello della famiglia o del gruppo di amici. Mangiare in questi contesti diventa “attività trasposta” direbbe Lorenz, un gesto anti-imbarazzo insomma.



Purtroppo invece è per sottostare alle leggi che la realtà odierna promulga impietosa che mangiare “in pubblico” è diventato causa di vergogna, disagio, paura dell'altrui giudizio spesso non migliore del “guarda questa/o quanto mangia” pronto a saziare ogni appetito.
Ossessionati, non ci accorgiamo minimamente che quel giudizio, nient'altro che un chiacchiericcio di fondo di scherno nei nostri confronti, altro non è che la voce di noi stessi, sempre pronti a punire ogni comportamento deviante dal regime che ci siamo auto-imposti e del quale ci siamo posti al vertice.

Ma questo male non si ferma, no. Continua a divorarci dentro, vile, sfruttando il senso di persecuzione che ci opprime e che senza eccezione alcuna, ci isola.
La solitudine ci fa sentire forti, invincibili, ci libera dall'onere di paragonarci agli altri, quasi come in quei giochi in cui dobbiamo trovare le differenze fra due immagini. Al contempo però, questa ci costringe a guardare dritto negli occhi l'unica persona che temiamo e odiamo davvero: il nostro Io.

I disturbi alimentari sono l'astioso divorzio fra due coniugi: la nostra anima (o psiche, se preferite) e il nostro corpo. Sono un'arteria recisa i cui estremi possono essere ricuciti insieme solo da un'altra persona, che con assoluta maestria, è capace di curare il nostro essere, ora devastato. 
Il prendere coscienza dell'aver bisogno di aiuto è già un primo passo verso la guarigione, l'alba che irrompe dopo una lunga notte senza stelle. 
L'entrare in terapia ci apre gli occhi: per la prima volta riusciamo a vedere chiaramente che l'isolamento a cui ci eravamo costretti, allo stesso modo grava su tante altre persone, tanti altri Io ancora nel pieno di un conflitto autodistruttivo.
Alzare lo sguardo sarebbe bastato a farci notare i tanti schiavi che trascinano lenti il pensante fardello di un'esistenza devota al desiderio mutilato di raggiungere la perfezione che inonda e infanga le nostre vite affogando la stima che ognuno ha di sé. 
Christina Aguilera cantava “I'm beautiful no matter what they say, words can't bring me down” (Sono bellissima e non mi importa di quello che dicono gli altri, le parole non posso abbattermi) per ricordare che siamo tutti meravigliosamente straordinari proprio perchè siamo noi, unici, talentuosi, appassionati, innamorati dell'avventura della vita. E anche se ci capiterà di arrivare talmente in basso da poter raschiare il fondo, dovremo ricordarci che il fuggire dagli altri e da noi stessi non sarà mai la soluzione più giusta; la vita, per quanto dura e difficile, non sarà mai meglio del nulla.

In conclusione, Fabiola De Clercq in “Fame d'Amore” scriveva così: “L'anoressia e la bulimia sono il sintomo tangibile di un dolore che non si vede, di un disagio psicologico lungamente incubato, segno di una crepa nella memoria o nella vita familiare. La persona anoressica e la persona bulimica sono come il gatto dei cartoni animati che inseguito dal grosso cane del quartiere si arrampica velocemente in cima a un albero, per cercare il rifugio e la protezione che non saprebbe trovare altrove. Da lassù guarda con sufficienza e sollievo ciò che dal basso lo minaccia. Da lassù è sicuro di avere un controllo totale, a trecentosessanta gradi, del mondo circostante. In più, se scendesse dovrebbe anche fare i conti con ciò da cui si era messo al riparo”.

Per il disegno, si ringrazia Fabala.

Martina Bracciaventi








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