Una vita al buio

E camminava.
Sempre a testa bassa. Non guardava mai la realtà che lo circondava, ci fosse stata una volta in due anni che Carlo avesse mai alzato la testa.
Un uccellino cinguettava sull’albero, ma a lui non interessava.
Anzi, ancor di più, non lo sentiva proprio quel suo cinguettare assillante.
E camminava. Sempre con quell’aggeggio tra le mani, come se queste fossero legate da una catena al cellulare, che Carlo ovviamente amava tanto.
Non lo amava alla follia. Sicuramente più di un paio di anni fa quando si recò in quello store di elettronica e lo comprò, per la modica cifra di 500 euro.
Mezzo stipendio di un operaio, diciamo …
Quel marchingegno lo rendeva felice nel suo piccolo, colmava il vuoto che nessun altro aggeggio era mai riuscito a colmare.
Due anni fa lo teneva quasi sempre spento, lo accendeva di tanto in tanto per controllare le mail, qualche messaggio e qualche notizia.
Adesso la cosa stava diventando una patologia perché passava tantissimo del suo tempo con il cellulare.
Scorreva le notizie, andava a curiosare dentro al profilo Instagram di una ragazza che aveva visto, poi l’aggiungeva su Facebook, si faceva un selfie, giocava qualche minuto a Soccer Mania e tutto il tempo così.
Non faceva chiamate, non gli piacevano.
Diceva che facevano male a causa delle radiazioni ma la verità è che a lui non piaceva il contatto. E la chiamata era proprio una forma di contatto perché passava la voce di quella persona.
Gli sembrava troppo.
La mattina si svegliava presto, generalmente all’alba e la prima cosa che faceva era staccare il cellulare dalla spina.
Doveva caricarlo come minimo due volte al giorno, come minimo …
Capitava anche lo facesse tre o quattro, dipendeva tutto da sua madre:
se lo fosse andata a trovare sarebbe stato costretto a rinunciare a parecchio tempo di fronte allo schermo.
Altrimenti sarebbe stato costretto a collegarlo al caricatore tre o quattro volte.
Quando il cellulare era al 100% era sereno, paragonabile ad un bambino felice che aveva appena comprato una pistola ad acqua oppure una squadra del Subbuteo.
Dopo aver staccato il cellulare dalla spina cominciava a sgranocchiare qualcosa, senza nemmeno badare a cosa mangiasse.
Un tempo era bravissimo in questo, era molto attento alla dieta e robe varie.
Adesso passava tutto in secondo piano perché ovviamente preferiva stare attento al cellulare più che a cosa mangiare.
Quindi metteva sotto i denti qualcosa e poggiando lo smarphone sul letto si vestiva.
Si vestiva come capitava, la prima cosa che prendeva metteva ( e capitava anche mettesse qualcosa di sporco, di sudicio, perché non faceva nemmeno più caso se mettesse i vestiti sporchi nel cesto dei panni da lavare) e questo sempre per guardare il cellulare.
Finito di vestirsi passava diverse ore seduto sul divano a guardare il telefono e alle 10.30 ( come sempre) portava fuori il cane, il suo piccolo Smarty.
Lui gli voleva bene, tanto bene.
Almeno al cane stava attento Carlo, lo curava ancora, una delle poche cose che continuava a coltivare era proprio l’amore per gli animali.
Lo portava fuori e rimaneva incollato al suo cellulare;  generalmente si faceva le foto quando usciva …
Faceva la solita passeggiata. La solita salita. Il solito marciapiede. Le stesse devianze. Gli stessi  viottoli. Passava di fronte agli stessi identici palazzi. Tornava a casa per la stessa identica strada.
Avete presente un robot? Ecco, Carlo stava diventando così.
Come ho già detto, i primi tempi che Carlo possedeva quell’aggeggio ogni tanto alzava la testa. Anche spesso. Gli piaceva molto la natura. E come questa anche le poesie.
Adesso aveva smesso. Sembrava un’altra persona, completamente diversa.
Era stufo di vedere sempre la stessa salita, lo stesso marciapiede, gli stessi palazzi, la stessa strada per tornare a casa.
Viveva in un paese che non permetteva nemmeno alternative.
Pian piano però quelle stesse strade aveva cominciato a farle in automatico; le gambe andavano da sole così che la testa poteva tranquillamente pensare al cellulare.
Una monotonia che faceva comodo, ovvio!

Alle 12 spaccate mangiava, poi passava tutto il pomeriggio a gozzovigliare.
Capitava qualche volta che lo raggiungesse sua madre, o delle volte la sorella con i figli, i nipotini di Carlo.
A lui i bambini non piacevano, volevano sempre giocare con il cellulare dello zio e a lui questo metteva pensiero.
Era troppo affezionato a quell’oggetto.
La sera però mangiava sempre da solo, con la forchetta sulla destra e il cellulare che controllava con l’indice della mano sinistra.
Andando avanti col tempo, la situazione peggiorò ancor di più.
Ormai viveva tutt’uno col cellulare, come se fossero un unico sistema.
E lui non si rendeva conto che stava diventando  apatico, indifferente,  insensibile.
Era troppo legato a quel diavolo che lo stava trascinando in un burrone profondo chissà quanto.

Non riconobbe più i suoi familiari e quando lo misero in un centro di disintossicazione si rese finalmente conto di quello che era diventato.
Il cellulare gli aveva reso la vita semplice, ponendogli tutto davanti, senza il minimo sforzo.
Ad un certo punto smise di camminare, era troppa fatica, pensava, troppo difficile. Si poteva benissimo stare seduti tutto il giorno.
Poi smise di respirare, troppa fatica. Si poteva benissimo dormire per sempre.







"Il cellulare semplicemente come simbolo di tutto ciò che può estraniarci dalla realtà." 


                                                                                                                                 Emanuele Liberti


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